La controriforma spagnola che cancella Zapatero (parte 2)

I segnali indicano le consuete scorciatoie: il bingo, per esempio. Un bingo megagalattico, questa l’idea più brillante al momento. Mentre nelle scuole di Valencia manca il riscaldamento a gennaio e in quelle di tutta la Spagna si sciopera per i tagli, pesantissimi, all’istruzione Esperanza Aguirre e Artur Mas, rispettivamente presidenti della comunità di Madrid e di quella catalana, si contendono la costruzione nel loro territorio di Eurovegas, la nuova mecca dei casinò. Il magnate di Las Vegas Shelson Adelson gioca con loro come il gatto coi topi: rilascia interviste in cui batte all’asta fra le due capitali il suo investimento  –  “sono qui con 17 mila milioni di euro, chi li vuole?”  –  e chiede in cambio esenzione assoluta dalle leggi spagnole in materia di fisco, lavoro, ambiente, urbanistica. Persino dalla legge sul fumo nei locali pubblici. Dice, in  sostanza: arrivo coi soldi ma faccio a modo mio. Le mafie, di cui la Spagna è gradita filiale estera, sono in vigile speranzosa attesa. I signori degli appalti e subappalti in grandi manovre.

Tagliare in istruzione e sperare nei proventi dei casinò mandando i cittadini a giocare alla roulette non è esattamente un modello di sviluppo lungimirante né generoso. Non la cultura ma la fortuna, ecco cosa ci serve, e pazienza per le generazioni che verranno. Allo stesso modo Barcellona, che vent’anni dopo ancora campa sulla visionaria oculatezza del suo modello olimpico, ripone oggi le principali speranze di crescita turistica sul Mobile World congress, il congresso mondiale della telefonia cellulare che si farà qui fino al 2018, settantamila turisti d’affari che in tre giorni muovono 300 milioni di euro, un fine settimana lungo in cui eserciti di manager soprattutto orientali mangiano paella e comprano a  due soldi le case che le banche mettono in vendita sottocosto, dopo averle sequestrate a chi  – migliaia e migliaia di persone  –  non poteva più pagare il mutuo.

In questi giorni lo spettacolo della città la mattina presto sembra il set di un film di Almodovar, una scena da titoli di testa. Nugoli di cinesi in cappotto di cache mire incrociano al semaforo centinaia di bambini che vanno a scuola per mano ai genitori. Tutti i cinesi portano la ventiquattr’ore. Tutti i bambini la maglia di Messi. Tutti, come per una occulta regia. Il Barca, e il calcio in generale, è del resto l’unica risorsa nazionale indiscussa. Favorisce l’export, persino. I manager asiatici chiedono biglietti al Nou Camp come benefit della trasferta, il presidente della Generalitat chiude affari miliardari in Marocco promettendo un posto fisso in tribuna ai membri del governo. Pep Guardiola, l’allenatore della squadra catalana, è eroe nazionale. Un modello, lui sì.

“Mi sveglio ogni mattina alle sei con un impegno per la giornata. Provo a realizzarlo, ogni giorno, senza lasciare che niente mi distragga dal lavoro che ho da fare entro sera. A volte penso che se ogni spagnolo

facesse la stessa cosa sarebbe diverso. Non vedo le mie figlie crescere. Mi domando quanto valga la pena remare contro la corrente”. E’ questa, ha detto giorni fa a un suo fraterno amico, la ragione per cui Pep medita di lasciare: non tanto né solo per ragioni sportive, soprattutto per questa. La fatica di remare contro corrente. Perché in effetti: come può essere lo stesso paese quello in cui i bambini (e i loro genitori) venerano come un mito un uomo schivo e soberrimo e il paese in cui il genero del Re –  del Re! – replicando un modello di comportamento diffuso è sotto processo per false fatturazioni, sospettato di essersi arricchito chiedendo soldi in cambio di servizi mai resi dalla sua società?

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Pubblicato su Repubblica.it

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